Cosa significa insegnare una lingua
Insegnare una lingua significa insegnare nuove categorie attraverso le quali rapportarsi col mondo esterno dal punto di vista del linguaggio. In secondo luogo significa offrire la possibilità di sbirciare dalla finestra di una nuova cultura, se come dice Humboldt, la lingua è ciò in cui è impressa la cultura di un popolo e addirittura l’attività stessa delle sue forze spirituali. Un secolo dopo, gli fa eco Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche affermando che «rappresentarsi una lingua, significa rappresentarsi una forma di vita…», il filosofo inoltre, va ancora più a fondo nel Tractatus quando dichiara che «i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo».
Ecco, credo bisognerebbe partire da qui per capire, o semplicemente farsi un’idea sul che cos’è una lingua. Prenderei dunque per valida l’ipotesi del filosofo austriaco, primo perché ho una passione per i limiti - offrono infatti la possibilità di superarli, tale promessa è intrinseca alla loro natura - secondo perché è appunto attraverso un linguaggio che io mi rappresento un mondo, il mondo. Rappresentarlo, in questo caso, significa comprenderlo. Dal (filosofare sul) linguaggio alla lingua nella sua singolarità: la lingua è la rappresentazione del mondo in riferimento ad una specifica cultura.
Impadronendomi di una lingua, vedo il mondo attraverso gli occhi della sua cultura.
Non si tratta solo di sfumature in un foglio di carta, cioè non si tratta solo di “lettere diverse” , ma di modi e schemi attraverso cui la mente decodifica il reale attraverso dei suoni specifici. Ed ogni suono, come insegna Gurdjieff, ha una sua vibrazione significante - cioè ontologicamente reale - e se la diversità non è un fatto sottovalutabile, non possiamo astenerci da una riflessione al riguardo.
Pur tuttavia, al di là di interessanti analisi sulla natura del suono e del valore “magico” della parola (si veda a tal proposito: P. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003), la questione che qui interessa dovrebbe essere preceduta da un’attenta analisi sul significato dell’insegnare in sé, nonché sul suo valore intrinseco.
Se l’appropriarsi di una lingua dischiude nuove possibilità e permette di valicare dei limiti – inerenti proprio alla realtà stessa – l’insegnamento della medesima dovrà essere interpretato come un compito delicato non solo dal punto di vista morale e pedagogico ma anche da quello ermeneutico e spirituale.
Ma in sostanza, che significa insegnare?
L’insegnare è un’arte attraverso la quale si riescono a plasmare delle forme che esistono in un’altra persona solo allo stato di modello, cioè di potenza, di possibilità. L’insegnante, attraverso un atto maieutico, attualizza questa potenza, rende esplicito ciò che nello studente è implicito.
La ricerca – cioè l’imparare in senso autentico – è in realtà un atto individuale, poiché io imparo per me stesso, l’insegnate è seduto in disparte e si limita solo a dare delle piccole indicazioni. Piccole ma estremamente determinanti. L’efficacia dell’insegnare sta soprattutto nella scelta di queste indicazioni, nonché nella modalità in cui esse vengono poi proposte allo studente. Tale modalità ha solo un’unica necessità: deve semplicemente essere la migliore delle modalità possibili. Deve essere un click, una leggera, dolce e poetica spinta che mette in moto un’energia, che dopodiché viaggia da sé indisturbata, sulle ali del suo entusiasmo e della sua potenza, costantemente supervisionata dall’insegnante.
Quest’ultimo è artefice di un’esplosione, che ha avuto luogo nell’epicentro della volontà dello studente, il quale se ben avviato, dovrebbe trovarsi nel bel mezzo di un’abilità in atto, una potenza che si è appena sprigionata. L’insegnante indica dei luoghi, delle arcane dimore dove riposano gli archetipi, lo studente deve semplicemente trasmutarli nella “realtà materiale”: il vero demiurgo in somma è sempre e solo lo studente, l’insegnante motiva, sprona, dirige, evoca, incrementa e modella una passione che una volta nata, semplicemente vive.
E se l’essenza della vita sta nel divenire, nel prosperare, nel migliorare – tutto in natura prospera e migliora, tutto segue un suo corso di perfezionamento costante ed inevitabile, dal semplice filo d’erba alla coscienza di una persona – si può facilmente evincere quanto l’imparare non sia altro che un piacevole migliorarsi, completarsi, arricchirsi e, in ultima analisi, “abbellirsi” perfino. In questo caso infatti il rapporto quantitativo è direttamente proporzionale a quello qualitativo: un qualcosa divenuto migliore, è un qualcosa divenuto più bello a testimonianza del valore soteriologico dell’estetica ribadito da Dostoesvkij: “la bellezza salverà il mondo” appunto. Imparare deve essere piacevole, è piacevole: più miglioro, più sono felice.
Anche imparare una lingua dunque può contribuire ad accrescere la mia felicità: la felicità di ridisegnare i limiti di un nuovo mondo.
Lucio Giuliodori
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