Io e la mia famigliola asfissiata, mio padre altare, mia madre natura e mia sorella diversa abbiamo preso un cane. A casa nostra ora c’è un cane: è bellissimo, maestoso, elegante e superbo. Ha una forma tutta allungata, affusolata, la testa appuntita, più piccola rispetto al corpo. A tratti è sproporzionato, con alcune parti inaspettatamente più minute di ciò che ci si aspetterebbe. Le zampe ad esempio, sono largamente più sottili del dovuto, e la testa poi…. una testa che sfuma via verso l’astratto. Tutto ciò lo rende armonioso. Per certi versi fa pensare a una jena, di quelle che dipingeva Leonora Carrington.
Bianco appare, un bianco panna, umido, soffuso e astratto, appiccicato al reale.


Mentre noi mangiamo lui è solito piazzarsi al centro della tavola e stare lì in piedi con la testa all’insù, tutto altezzoso, scrutando i cieli, intuendo le stelle, varcando l’empireo col sesto senso.
Mentre io e la mia famiglia perfetta beviamo vodka, egli fa le veci di meridiano del mondo: catalizzando energie cosmiche annuisce a varchi quadrimensionali, ispeziona filosofie microcosmiche incastonate in odori, cigolii, echi.
Prima di stabilirsi da noi era il cane di Anatol da cui imparò a stimare i sentimenti: «le piccole mani della mente».
Egli non appartiene a una razza, consapevole che la razza non è niente mentre il singolo è tutto.


Egli ha un mestiere: fa il fisico. E anche il suo nome è FISICO. Tale professione gli garantisce massima autorità e indiscutibile prestigio, per questo sta in piedi sulla tavola mentre noi mangiamo.
Si occupa di quantismo e delle implicazioni filosofiche della meccanica quantistica.
Il suo più grande sogno è aprire la scatola del gatto di Schrödinger e, possibilmente, sbranare il gatto. Nei suoi pensieri si avvicendano sovente il Paradosso EPR e il Principio di indeterminazione di Heisenberg.

Noi umani non capiamo niente di tutto ciò, la mia famigliola italica è di modeste capacità e non riesce a tuffarsi nell’abisso che tali ripide riflessioni impongono. Fisico tuttavia, col suo sguardo appeso al cielo, era per noi un invito, un esempio, un monito da seguire e con quell’aria da monaco zen mi ricordava a tratti Thich Nhat Hanh: «There is no way to happyness, happyness is the way», così sentenziava il monaco buddista vietnamita e così a me sembrava leggere negli occhi di Fisico. Fisico era felice: la riflessione lo appagava totalmente, in lui leggevo le parole di Sgalambro: «Nulla mi importa delle “gioie della vita”, belle donne e ricchezze non mi dicono nulla, ma un bel pensiero, sinuoso come un serpente, una verità, la penetrazione di un difficile testo, la vittoria del mio pensiero su un altro, strapparmi tutto questo è strapparmi la carne e le viscere». Fisico la pensava alla stessa identica maniera: non era un viveur, era un flâneur . Trapassava la folla con la punta del suo ingegno, la squarciava nell’anima (morta) mentre essa passava, continuava a passare, come il tempo, come l’eterno, come i profumi, i suoni, i cigolii delle porte che tanto lo attraevano, dove furibondo si immergeva il suo dubbio iperbolico: cosa si nascondeva in tali misteri? Sembrava Florenskij da giovane con quell’amore per l’occulto, il mistico e il misterico.

Frugava il reale Fisico, lo perquisiva sin dentro le viscere, a volte me lo immaginavo in divisa, una Guardia di Finanza che non faceva sconti al fenomeno, alla caducità dell’oggettivo che lui costantemente rimetteva in discussione tramite la teoria degli ologrammi di Bohm. Dava la caccia al Noumeno, all’Archetipo degli archetipi, lacerava di continuo il velo di maya.

Soggetto e oggetto si scambiano le parti nella sua concezione taoista dell’esistente: tutto si compenetra, tutto si armonizza, tutto è perfetto, tutto è Uno, tutto è Io tra microcosmo e macrocosmo - la mia marcia famiglia a un passo dall’inferno e il mio cane Alleato arroccato alle barricate della nuova fisica, trincea postmoderna dell’Assurdo contro il meccanic
ismo positivista.





Tratta da: "Postmoderno immaginario", Decomporre, gaeta 2014.








 

 






Eravamo a una conferenza, c’era Julius Evola che per l’occasione era cinese e noi tutti, lì, indaffarati ad accontentarlo e compiacerlo in tutto. Era un perfezionista e voleva che tutto fosse fatto nel più alto e migliore dei modi. Lui stesso era alto, sfoggiava fiero il suo monocolo dal quale sbirciava il velo di maya, il fenomeno e lo stesso noumeno.

Mentre lo guardavo mi tornavano alla mente i versi della canzone Tao tratta da L'ombrello e la macchina da cucire: «ama secondo il tao... trattieni il seme».

I versi di Battiato si mescolavano per osmosi con i ricordi della Metafisica del sesso.

Sorvolavo, trasognavo e sembravo astrarmi dal reale, barcollato, zampillato da pensieri penetrati dal giogo stesso di sesso e trascendenza: l’orgasmo allungato, esteso, allucinato al di la di tutto ciò che esiste...

Ad un tratto il Mago strattonò il reale e bruscamente mi rimbalzò al di qua, schiaffando via quell’ondulare noetico nel quale spesso scivolavo, cadevo, precipitavo.

Il Maestro mi strattonò l’anima e il corpo materiale rimbombò in aula magna dove era in corso la conferenza.

Tra poco sarebbe stato il mio turno, dovevo parlare di sesso e trascendenza nell’opera del Barone ma quest’ultimo si lamentava di tutto soprattutto dei riflessi di sole che attraverso le finestre squarciavano la sala, levigandone l’aura.

Il Mago continuava a ripetermi che avrei dovuto parlare ad occhi chiusi, come fossi in trance; prese il foglio dove mi ero preparato il discorso e lo strappò in mille pezzi.

Mi disse di connettermi alla Sfera del Silenzio tramite la tecnica apposita, avrei dovuto farlo ora, lì, davanti a tutti. E poi cominciare a parlare in una sorta di channeling che avrebbe sicuramente disturbato l’accademica platea, attenta più alla forma che allo spirito.

Il Barone voleva proprio quello, voleva che con un atto magico mandassi in frantumi le bancarelle della ragione calcolante alla quale le nutrie occhialute si aggrappavano per respirare.

L’ufficialità, i saluti, le riverenze, le presentazioni, le noie mortali di ragnatele cerebrali, le scalette da seguire, da inseguire e da salire. Tutto ciò era da distruggere, da vomitare via dal reale, schiacciarlo col tritacarne dello spirito, cancellarlo una volta per tutte dall’ombra dell’apparenza. Bisognava puntare al fenomenico. E farlo fuori. Il mondo empirico andava dissolto. Era questo l’abstract. Il target del mio paper.

A un certo punto, mentre canalizzavo, apparve un Angelo. Cadde (apparve) al centro della sala. Tutti sobbalzarono, alcuni arricciarono il naso, altri svennero, i più anziani si pietrificarono, i più arditi esultarono. I filosofi abdicarono, i teologi si suicidarono, gli iniziati andarono in estasi.

L’Angelo cominciò a parlare, ad ogni parola precipitava un mattone del reale, fin quando crollò giù tutto il mondo sensibile. La Wirklichkeit venne rasa al suolo, in un istante eterno venne reciso ogni dubbio sul senso del reale, ormai esso stesso sfuocato via.

Niente più mondo, niente più domande intorno ad esso. L’Angelo formò una piramide di luce, le sue parole materializzarono una sagoma triangolare in cui lui stesso confluì e con lui, progressivamente tutto il resto dell’esistente, noi inclusi.

Tutto divenne luce, tutto fu luce, il cielo fu luce, l’inferno fu luce, il sogno e i suoi fantasmi si pitturarono nella luce. Il paradiso stesso si scaraventò quaggiù, grazie al portatore di Luce. Grazie al nostro stesso anelare ad essa: fu l’Intento a materializzare e smaterializzare un reale trasfigurato sin nel profondo.

Tutt’intorno proruppe il Sogno e noi l’infilzammo mentre l’omnitudine inerte continuava dormire.

Da fuori sentivamo il reale ansimare: gli orologi camminavano, le campane suonavano, le mamme educavano, i potenti comandavano, tutto a dovere insomma. Chi è in coma non può svegliarsi – e solo pochissimi vedono la Luce. Tutti gli altri rimangono nella Caverna, incatenati all’irreale,  come ai tempi di Platone.


 

 

Tratta da: "Il Guastatore. Quaderni neo avanguardisti", Gaeta: Decomporre 2014








 



 



«Ma ora parto, mi ha convinto Blake, me ne vado al Matrimonio del Cielo e dell’Inferno, mi presenterò elegante, con in mano i Fiori del male di Baudelaire e in testa una lunga tuba magica, dalla quale spero non fuoriuscirà l’Onniscienza che mi porto sempre appresso, dopo aver sopportato tanta, troppa squallida filosofia. Dentro la tuba c’è un gran bazar: le monadi spinoziane schizzano di qua e di là reclamando la loro presenza, mentre gli atomi democritei si meravigliano di fronte alle onde-particelle della meccanica quantistica…».

Poco dopo mi svegliai.

Stavamo ascoltando Voice of the soul dei Death, eravamo in una baita di montagna, avvolti dal fumo dell’incenso, quando cominciammo a trasognare, così, lievemente, ancheggiando tra i varchi dell’Oltre che precipitosi si avvicendavano.

Madeline era distesa accanto a me, aveva in mano uno strano cristallo e spesso se lo portava al petto, era vestita di nero, con un abito fatto solo di veli, uno intorno all’altro, che si ricoprivano a vicenda come  le foglie autunnali che calpestava il giovane Florenskij scorgendovi l’inabissamento, l’oblio temporale, l’eterno presente.

Ero felice, ero lì, disteso a terra, accanto a Madeline Von Foerster, la pittrice che scava l’occulto con la magia delle Visioni. Gli arpeggi di Schuldiner ci prendevano per mano sino a portarci al di là, oltre il visibile, nel luogo del confine. Le Porte Regali erano a due passi dal nostro gaio esistere e lo sguardo della pittrice, assorto nel buio confuso dall’incenso, stava salendo scalini arcani.

Anch’io salivo, dinnanzi a me vedevo esattamente una scalinata dorata, piena zeppa di merletti, come fossi all’Hermitage, tornato indietro nel mondo, al tempo degli Zar, nel freddo sinuoso di un romanzo dostoevskiano.

“Salire” pensavo, bisogna sempre salire, sempre più su, sino all’inimmaginabile, dentro gli archetipi, oltre il dissidio di psiche e materia.

Mentre salivo, mi tornava alla mente il filosofico epilogo di una canzone di Battiato: L’esistenza di Dio. Quel tedesco malioso mi si avvolgeva dentro i ricordi, scombinandoli del tutto, stavo nuotando nell’aria, dentro quelle parole eleganti che mi riportavano all’ottocento, tra Pascal e Lessing, tra gli idealismi pomposi e le teologie sepolte, putrefatte dentro il loro non senso, dentro l’ineffabilità di un Dio costruito e macerato dentro dimostrazioni acquose e piroette chirurgiche.

Forse anch’io ero tra loro, nella mia precedente incarnazione, tra la storia del pensiero, tra i caffè filosofici e le cattedre snobbate, come quelle di Schopenauer, o oltremodo celebrate, come quelle di Hegel. O forse ero solo un barbone col vizio delle biblioteche e dei trattati. E ora sono forse dentro un libro, dentro la polvere, dentro gli inutili sforzi dell’intelletto, appoggiato a uno scaffale, sotto lo sguardo distratto di un personaggio di Hesse, anche lui tedesco, anche lui amico dell’ Amicizia, anche lui in viaggio, da un estremo all’altro di quella corda tesa allungata sopra l’abisso. Sopra un ponte che richiama l’Est e gli ricorda l’Ovest, dall’assurdo di Gogol’ a quello di Pessoa.  O dall’alto verso il profondo, dai cieli infernali di Strindberg, alla Morte del sole di Sgalambro, da Stoccolma a Catania, passando per l’epicentro del nichilismo, tra le vette di Sils Maria, dove vola alta l’aquila di Zarathustra specchiandosi tra  laghi che incorniciano i pensieri, tra imponenti montagne e nuvole altezzose. Morbide, ovattate e glaciali come il Sogno che sto vivendo, senza bisogno di dimostrarlo, senza bisogno di imporlo, senza costringerlo in un libro, senza annebbiarlo nei concetti, senza impolverarlo o pensarlo. Vederlo. Ascoltarlo.



Tratto da Lucio Giuliodori, "Arte Regia", CreateSpace, Seattle 2015

 

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