Lucio Giuliodori

La vera vertigine è l’assenza di follia.

Emile Cioran

ESTRATTO:



..."«Scrivere, dipingere, sono per me strumenti per viaggiare, anche se non sempre so dove sto andando  o cosa questo viaggio significhi»[1]. Il precipizio trascendente nel quale frana a strapiombo l’appendice metafisica che sostanzia la percezione del reale di Leonora Carrington, perpetra un cammino che vede in interiore homine l’empito di uno sviluppo  iniziatico concretato nel deflusso  verso il sacro, l’immaginifico, il magico e il misteriosofico.


«La vera forza di un quadro è quella di restituirci un’assenza»[2]. L’icasticità di Sgalambro, in limine alla quale guadagna vigenza filosofica un’ineludibile apertura al noumenico, ci inchioda al mistero dell’io nella sua realtà psichica, reale, avvolgente e sconvolgente. L’assenza che l’opera artistica ci restituisce è il nostro doppio, la metà di noi stessi che non vediamo in quanto invisibile, ma resa visibile proprio dall’arte, parafrasando Paul Klee.


L’arte ci restituisce quello che di noi non riusciamo più a scorgere e se conoscere (se stessi) è ricordare, l'arte, intesa quale strumento di introspezione, ci restituisce il significato del viaggio intrapreso - il saggio in questione racconta del viaggio affascinante e misterioso di Leonora Carrington, geniale pittrice, scultrice e scrittrice surrealista, nata a Lancaster nel 1917 e morta a  Città del Messico nel 2011 all’età di 94 anni.


L’arte ci restituisce, trasmutato e sublimato in bellezza, ciò che di oscuro risiede in noi germogliando e principiando messe di archetipi, tanto operativi quanto sfuggenti all’occhio calcolante, purtuttavia cristallini per ciò che Lev Šestov definiva invece «la seconda vista»[3].
Ci restituisce una verticalità adamantina asseverata dal periplo atavico del sacro, dall’apparente dittico interiore-esteriore, inconscio-conscio, immaginato-visto, entangled, per usare termini quantistici, nella psiche, sia individuale che collettiva.

Leonora Carrington si inserisce a pieno titolo in quel vastissimo filone di pittori surrealisti, di cui Valls rappresenta sicuramente  il corifeo[4], nei quali l’elemento psicanalitico si fonde e si confonde con quello esoterico. Nella vita e nell’opera della Carrington granisce quel perenne connubio tra follia e genialità riproponendo ancora incessantemente e spasmodicamente il tetragono dilemma della presunta sanità della società contrapposta all’ideale dell’artista pazzo o, più che il dilemma, l’imponente interscambiabilità dei due ibridati elementi: è la società ad essere sana e l’artista folle o piuttosto il contrario?


In virtù e in balia di una sensibilità spropositata, l’artista introietta tutto il marcio del sociale che deflagra rutilante in opere asseverate da specchi, catalizzatori di energie, di vibrazioni, di sensazioni, talvolta «nere» e inudibili all’inane sguardo di occhi sani, ben adatti (e adattati) alla società, irretita ai suoi costumi, ai suoi ideali, alle sue aspettative.


L’uomo-massa è sano agli occhi della società e folle agli occhi dell’artista il quale viceversa appare folle all’uomo massificato in un periplo proteiforme che ripropone ineluttabilmente l’eterno ritorno del dissidio follia-normalità, ben inquadrato dalla riflessione filosofica di Elémire Zolla, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e Settanata, mi riferisco alle opere Volgarità e dolore, Le potenze dell’anima e Che cos’è la tradizione"...





[1] Citata in T. AGNATI, Leonora Carrington. Il Surrealismo al femminile,  Selene, Milano 1997, p. 18.

[2] M. SGALAMBRO, Del pensare breve, Adelphi, Milano 1991, p. 67.


[3] Cfr. L. SESTOV, La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche, a cura di E. Lo Gatto, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1950.

[4] Rimando al mio saggio Psicanalisi della pittura: Dino Valls e l’immagine attiva dell’inconscio, CS Publishning, Seattle 2014 e in «La Nottola di Minerva», Anno X, n. 1/3, 1/2012.









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